CROI 2022: La ‘paziente di New York’, in remissione dall’HIV a 14 mesi dal trapianto di staminali, Mercoledì 16 febbraio 2022

La ‘paziente di New York’, in remissione dall’HIV a 14 mesi dal trapianto di staminali

La prof.ssa Yvonne Bryson (in alto al centro) a CROI 2022.
La prof.ssa Yvonne Bryson (in alto al centro) a CROI 2022.

Una donna di New York non presenta tracce rilevabili di HIV nell’organismo 14 mesi dopo essere stata sottoposta a un trapianto di cellule staminali resistenti all’HIV dopo il quale ha smesso di assumere la terapia antiretrovirale.

La prof.ssa Yvonne Bryson dell’Università della California-Los Angeles ha descritto il nuovo caso alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2022).

La paziente era risultata positiva all’HIV nel 2013, e nel 2017 ha sviluppato una leucemia mieloide acuta che ha reso necessario un trapianto di cellule staminali. Si è così deciso sottoporla a un trattamento sperimentale che prevedeva l’impiego di sangue di cordone ombelicale con doppia mutazione delta-32: una mutazione rara che disabilita il recettore CCR5, la chiave sfruttata dalla maggior parte dei ceppi di HIV per infettare i linfociti T. Già in passato erano state usate cellule con questa mutazione per ricostruire un nuovo sistema immunitario resistente all’infezione in pazienti HIV-positivi che necessitavano di un trapianto di staminali. Essendo la paziente di etnia mista, le possibilità di trovare un donatore adulto geneticamente compatibile che fosse anche portatore della doppia mutazione erano molto esigue, soprattutto dato che negli Stati Uniti i donatori di midollo osseo di etnia nera sono pochissimi.

I medici hanno eseguito sulla paziente una nuova procedura (trapianto haplo-cord) che abbina il trapianto di staminali cordonali con mutazione CCR5-delta-32 al trapianto di midollari da un parente stretto aploidentico (ossia solo parzialmente compatibile) privo della mutazione. Il trapianto di sangue cordonale non richiede una compatibilità perfetta tra donatore e ricevente, ma la quantità di cellule staminali che è possibile raccogliere non è sufficiente per il trapianto su un adulto, senza contare che le staminali ottenute da cordone attecchiscono più lentamente nell’organismo. Da un donatore adulto si ricavano invece cellule in quantità sufficiente e in grado di proliferare più rapidamente, il che contribuisce a puntellare le difese immunitarie e a dar tempo alle staminali cordonali di attecchire. Prima di affrontare il trapianto di staminali, la donna è stata sottoposta a un ciclo intenso di chemioterapia e a una radioterapia total body.

L’intervento ha avuto buon esito. La paziente ha successivamente continuato la terapia antiretrovirale per altri tre anni; dopodiché ha deciso di sospendere l’assunzione dei farmaci anti-HIV, sotto stretto controllo medico. A distanza di 14 mesi – e quattro anni e mezzo dopo il trapianto – la donna non ha mai avuto un rebound virale, né mostra tracce di anticorpi contro l’HIV, e la leucemia resta in remissione.

Gli esperti per ora non si sbilanciano a dichiararla ‘curata’ dall’HIV, ma sperano che la “paziente di New York” possa diventare la terza persona al mondo, dopo il “paziente di Berlino” e il “paziente di Londra”, in grado di mantenersi in remissione prolungata dall’HIV dopo essersi sottoposta a un trapianto con staminali. Si tratta però, ci tengono a sottolineare, di una procedura rischiosa e non applicabile alla stragrande maggioranza delle persone che vivono con l’HIV.


    Stati Uniti, cala il rischio di contrarre l’HIV nel corso della vita – ma non per tutti

    La dott.ssa Sonia Singh (a sinistra) a CROI 2022.
    La dott.ssa Sonia Singh (a sinistra) a CROI 2022.

    Negli Stati Uniti il rischio di ricevere una diagnosi di infezione da HIV nel corso della vita è diminuito dell’11% se si raffrontano i dati relativi al quadriennio 2010-2014 con quelli de 2017-2019; permangono però marcate disparità legate a etnia e provenienza geografica, ha riferito a CROI 2022 la dott.ssa Sonia Singh dei Centri per la Prevenzione e il Controllo delle malattie degli Stati Uniti (CDC).

    A prescindere dall’età, i maschi sono risultati più esposti al rischio di avere una diagnosi di HIV rispetto alle femmine: il rischio complessivo è risultato infatti di 1 su 76 per i maschi contro l’1 su 309 per le femmine.

    Il rischio è inoltre sensibilmente più elevato all’interno di determinati gruppi etnici:

    per gli individui di etnia nera, il rischio è di 1 su 27 se maschi (contro l’1 su 171 per i maschi bianchi) e di 1 su 75 se femmine (contro l’1 su 874 per le femmine caucasiche). Il rischio varia anche a seconda della provenienza geografica: è infatti di ben 1 individuo su 39 per chi vive a Washington DC, contro solo 1 su 655 per chi invece proviene dallo stato del Wyoming.

    Il raffronto tra i due periodi presi in considerazione non evidenzia miglioramenti per gruppi di popolazione di etnia ispanica, nativi-americani e femmine caucasiche: il rischio complessivo di avere una diagnosi di HIV nel corso della vita continua dunque ad essere pesantemente influenzato da fattori come sesso, etnia e provenienza geografica.

    Queste stime possono essere molto significative per capire come indirizzare al meglio gli sforzi in materia di prevenzione. La dott.ssa Singh ha sottolineato la necessità di intervenire sui fattori strutturali a causa dei quali certi gruppi etnici sono più soggetti di altri a contrarre l’HIV nel corso della vita.


    Francia, zero eventi di trasmissione verticale in oltre 5000 donne HIV+ incinte con carica virale irrilevabile

    Helen Sushitskaya/Shutterstock.com
    Helen Sushitskaya/Shutterstock.com

    I dati raccolti dall’anno 2000 in uno studio di coorte francese mostrano un tasso di trasmissione dell’HIV dello 0% in taluni gruppi di donne in gravidanza con carica virale irrilevabile, hanno riferito a CROI 2022 i ricercatori della ANRS-EPF French Perinatal Cohort.

    Una donna HIV-positiva che non assume la terapia antiretrovirale rischia di trasmettere l’infezione al nascituro durante la gravidanza, il travaglio o l’allattamento: si tratta di quella che viene talora designata come ‘trasmissione verticale’. L’equazione “irrilevabile = intrasmissibile” (‘undetectable equals untransmittable’, U=U), che sta a significare che un individuo con carica virale irrilevabile non trasmette l’infezione da HIV, è basata su dati relativi alla trasmissione sessuale, e non verticale. Questa indagine dimostra però quali risultati si possono raggiungere in un paese ad alto reddito dove è possibile garantire un accesso ininterrotto alle cure.

    I ricercatori hanno esaminato dati relativi a 15.959 bambini nati da madri HIV-positive nella Francia continentale tra il 2000 e il 2017. Il dato dello 0% è riferito ai 5482 bambini le cui madri assumevano già la terapia retrovirale quando sono rimaste incinte, presentavano una carica virale irrilevabile (al di sotto di 50) al momento del parto e non hanno allattato. Si è anche registrato un tasso di trasmissione dello 0% per quei 2358 bambini le cui madri hanno mantenuto irrilevabile la carica virale durante il primo trimestre di gravidanza.

    I dati hanno anche confermato che la trasmissione era frequente nei casi in cui le madri non assumevano antiretrovirali; e prima iniziavano le terapie, più rari erano gli eventi di trasmissione. Nell’arco di tempo preso in considerazione dall’analisi, la percentuale di donne che ha iniziato ad assumere il trattamento antiretrovirale è aumentata (dal 68% nel quinquennio 2000-2005 al 99,2% del 2011-2017) e quella di bambini nati HIV-positivi, di contro, è calata (dall’1,1% del 2000-2005 allo 0,2% del 2011-2017).


    Tassi di infarto in calo, ma non tra le persone HIV+

    Il dott. Michael Silverberg (al centro) a CROI 2022.
    Il dott. Michael Silverberg (al centro) a CROI 2022.

    Secondo i risultati di uno studio condotto sugli abitanti di due grandi città statunitensi presentato a CROI 2022, le persone HIV-positive sono risultate esposte a un rischio di essere colpiti da infarto miocardico del 60% maggiore rispetto alle persone HIV-negative, una disparità che è peraltro aumentata nel corso del tempo. Sono dati che sottolineano la necessità di attuare un monitoraggio costante e garantire la continuità degli interventi di gestione delle malattie cardiovascolari.

    Che le persone con HIV siano maggiormente soggette agli eventi cardiovascolari rispetto a quelle HIV-negative era già stato dimostrato, ma con la popolazione HIV+ che sta invecchiando, la diffusione di nuovi antiretrovirali e la maggiore probabilità che le persone con HIV abbiano parametri immunologici e virologici soddisfacenti, potrebbero esserci state variazioni anche rispetto all’entità di questo rischio.

    Per verificarlo, è stato condotto uno studio su individui HIV-positivi e -negativi in carico nelle strutture sanitarie di due grandi città statunitensi, San Francisco e Boston, nei periodi 2005-2009 e 2010-2017.

    L’analisi ha preso in considerazione 9401 adulti HIV-positivi, ognuno dei quali è stato abbinato a tre o quattro individui HIV-negativi con un profilo demografico e di rischio cardiovascolare comparabile. Quasi il 90% dei partecipanti erano maschi, a riflettere la composizione della popolazione HIV-positiva di queste due città.

    In un primo momento, l’incidenza cumulativa di infarto nell’arco di cinque anni è risultata identica tra i due gruppi, dell’1,1% sia per le persone HIV-positive che per quelle HIV-negative. Successivamente, però, i dati hanno iniziato a divergere: nel gruppo delle persone HIV+ il tasso è salito all’1,2%, mentre tra le persone HIV-negative è sceso allo 0,9%. Dopo aver aggiustato i dati per caratteristiche demografiche e fattori di rischio cardiovascolare, il gruppo delle persone con HIV risultava del 60% più esposto al rischio di infarto rispetto al gruppo di controllo.

    La differenza sembra in gran parte ascrivibile a una riduzione del rischio per le persone HIV-negative, piuttosto che a un aumento per quelle HIV-positive. Gli autori dello studio hanno ipotizzato che il mancato abbassamento del rischio tra le persone HIV-positive sia da imputarsi a fattori strettamente connessi alla presenza dell’HIV, per esempio alla maggiore durata dell’infezione o all’impiego di nuovi antiretrovirali. Gli inibitori dell’integrasi, per esempio, sono stati associati all’aumento di peso e il tenofovir alafenamide a valori elevati dei lipidi sanguigni, a differenza del precedente tenofovir disoproxil fumarato.


    Regno Unito, perché i casi di HIV tra i maschi gay sono in calo

    Lopolo/Shutterstock.com
    Lopolo/Shutterstock.com

    La notevole diminuzione delle nuove infezioni da HIV tra i maschi omo- e bisessuali osservata nel Regno Unito è merito di una combinazione di interventi preventivi, sintetizza un poster presentato a CROI 2022.

    Nel 2021, secondo le stime, le nuove infezioni da HIV tra i maschi omo- e bisessuali sono state 669: solo dieci anni prima, nel 2011, si aggiravano intorno a 3000 – un calo di ben il 75%. Secondo gli autori dello studio da cui sono stati ricavati questi dati, le nuove infezioni potrebbero continuare a diminuire a questo ritmo nel corso del prossimo decennio, per arrivare entro il 2040 a una situazione in cui una nuova infezione in questo gruppo di popolazione sarà un evento raro; a patto, però, che si continuino ad attuare le attuali misure di prevenzione.

    In questo studio di modellazione i ricercatori si sono serviti di scenari controfattuali per enucleare il contributo dei vari tipi di intervento preventivo. È emerso che se l’uso del preservativo tra i maschi omo- e bisessuali non fosse mai aumentato rispetto al 1980, le infezioni annuali sarebbero più del doppio di quelle attuali. Se invece non fosse aumentato il numero di uomini che si sottopongono al test per l’HIV, oggi avremmo l’80% di infezioni in più, anche se rimanessero ai livelli attuali altre variabili come l’uso del preservativo e la percentuale di uomini che assumono una terapia antiretrovirale o la PrEP (farmaci anti-HIV assunti regolarmente a scopo preventivo). E ancora, se si iniziasse la terapia solo con una conta dei CD4 inferiore a 350 come prima, ci sarebbe il 25% di infezioni in più. E infine, se non fosse mai stata introdotta la PrEP, anche se fossero stati attutati tutti gli altri interventi, nel 2021 ci sarebbero state il doppio delle infezioni di quelle effettivamente registrate.

    L'analisi sembrerebbe indicare che, se nessuno di questi interventi fosse mai stato introdotto, nel 2021 si sarebbero contate 7646 nuove infezioni, ossia undici volte quelle effettivamente registrate. È grazie all’interazione e alla sinergia tra questi quattro interventi che si è ottenuto questo ragguardevole risultato.


    La ‘terza dose’ protegge le persone HIV+ dalle forme gravi di COVID-19

    La dott.ssa Jing Sun (in basso a sinistra) a CROI 2022
    La dott.ssa Jing Sun (in basso a sinistra) a CROI 2022

    La somministrazione di dosi aggiuntive e di richiamo del vaccino anti-COVID ha mostrato di proteggere molto efficacemente dalle forme gravi della malattia le persone con HIV e altre disfunzioni immunitarie: è quanto emerge da un ampio studio condotto negli Stati Uniti, i cui risultati sono stati riferiti questa settimana a CROI 2022.

    Sono numerosi gli studi che mostrano come le persone con infezione da HIV – soprattutto quelle con conta dei CD4 inferiore a 200 – abbiano una risposta meno robusta ad alcuni vaccini anti-COVID. Le autorità sanitarie statunitensi ed europee raccomandano che le persone HIV-positive ricevano una dose aggiuntiva di vaccino (talora chiamata ‘seconda dose’) se sono immunocompromesse: questa dose in più serve ad ottenere il massimo della risposta immunitaria al vaccino, piuttosto che a ripristinare un adeguato livello di risposta immunitaria che con il tempo è calato, come fa la dose di richiamo (detta anche ‘booster’, o ‘terza dose’).

    Al CROI, la dott.ssa Jing Sun della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora ha riferito i risultati di uno studio su infezioni postvaccinali e forme gravi di COVID-19 in soggetti che avevano ricevuto la dose aggiuntiva o di richiamo dopo aver completato il ciclo vaccinale.

    La popolazione di studio era composta da 614.750 persone che avevano completato il ciclo vaccinale, di cui 174.042 avevano ricevuto anche la dose di richiamo. Il 20% dei partecipanti presentavano una disfunzione immunitaria, perché affetti da HIV, cancro o malattia autoimmune, o perché si erano sottoposti a un trapianto d’organo o di midollo osseo.

    Le dosi di richiamo sono risultate più efficaci negli individui non affetti da disfunzione immunitaria. Ciò nonostante, quando gli studiosi hanno preso in considerazione le infezioni con Sars-Cov-2 verificatesi nelle persone con disfunzione immunitaria nei nove mesi successivi al completamento del ciclo vaccinale, hanno notato come chi aveva ricevuto la cosiddetta ‘terza dose’ avesse comunque un rischio del 44% inferiore di infezione postvaccinale rispetto a chi non l’aveva ricevuta. Il richiamo ha mostrato anche di ridurre il rischio di ricovero ospedaliero e di morte per COVID-19 di circa l’80% nelle persone affette da un disturbo immunitario.

    Uno studio separato presentato alla Conferenza dal dott. Andrea Antinori dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Spallanzani di Roma ha gettato uno sguardo più approfondito alla risposta immunitaria nei soggetti con basse conte di CD4 dopo la vaccinazione.

    L’equipe del dott. Antinori ha osservato che, trascorso un tempo mediano di 175 giorni dopo il completamento del ciclo vaccinale, la risposta anticorpale delle persone HIV-positive con conta dei CD4 inferiore a 200 calava sensibilmente, rispetto a chi invece aveva una conta linfocitaria superiore a 500. Anche l’immunità cellulare (mediata dai linfociti T) è risultata subottimale.

    Gli studiosi hanno poi esaminato la risposta anticorpale e cellulo-mediata in 216 pazienti in terapia antiretrovirale con una pregressa diagnosi di AIDS o una bassa conta dei CD4, 15 giorni dopo che avevano ricevuto la terza dose del vaccino Pfizer o Moderna. Un’analisi multivariata con aggiustamento per età e fattori HIV-correlati, tra cui la conta dei CD4 più bassa e una carica virale rilevabile, ha mostrato che i pazienti con conta dei CD4 inferiore a 200 non avevano un rischio significativamente più elevato di non rispondere alla dose di richiamo.

    In un intervento durante la sessione di apertura della Conferenza, tuttavia, un esperto di vaccini come il prof. Dan Barouch ha ricordato che “I richiami sono certamente utili ed è comprensibile che occupino gran parte del dibattito attuale sui vaccini anti-COVID, ma ricordiamo che la priorità è far fare la prima dose ai non vaccinati, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo.”