CROI 2022: Ulteriori evidenze a favore del reimpiego del tenofovir nel trattamento di seconda linea, Mercoledì 23 febbraio 2022

Ulteriori evidenze a favore del reimpiego del tenofovir nel trattamento di seconda linea

Il dott. Lloyd Mulenga (in basso a sinistra) e il prof. Nick Paton (in basso a destra) a CROI 2022.
Il dott. Lloyd Mulenga (in basso a sinistra) e il prof. Nick Paton (in basso a destra) a CROI 2022.

I regimi di seconda linea con dolutegravir in cui si reimpiegano tenofovir e lamivudina si sono dimostrati più efficaci di quelli a base di un inibitore della proteasi in combinazione con un nuovo backbone nucleosidico.

Il dott. Lloyd Mulenga e il prof. Nick Paton hanno presentato alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2022) i risultati di due studi condotti in Africa sub-sahariana.

Le attuali linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per trattamento di seconda linea nei contesti con risorse limitate raccomandano l’impiego di dolutegravir in combinazione con un nuovo analogo nucleosidico e – dato che la maggior parte dei pazienti in trattamento di prima linea oggi assume tenofovir – ciò significa passare alla zidovudina, che è meno tollerata.

Lo studio VISEND ha arruolato 1201 partecipanti in Zambia, tutti reduci da un fallimento terapeutico con un regime di prima linea a base di NNRTI contenente tenofovir e lamivudina.

Nel braccio A dello studio, 418 partecipanti con carica virale inferiore a 1000 sono stati randomizzati per ricevere o un regime combinato "TLD", contenente tenofovir disoproxil (TDF) e lamivudina con dolutegravir, oppure un regime combinato "TAFED", contenente la nuova formulazione di tenofovir (tenofovir alafenamide, o TAF) ed emtricitabina con dolutegravir.

Nel braccio B, 783 participanti sempre con carica virale superiore a 1000 sono stati randomizzati per assumere TLD, TAFED, zidovudina/lamivudina più atazanavir/ritonavir, oppure zidovudina/lamivudina più lopinavir/ritonavir.

Alla 48° settimana, nel braccio A, il 76% dei pazienti assegnati al regime TAFED e l'81% di quelli assegnati al TLD avevano abbattuto la carica virale al di sotto delle 50 copie/ml. Nel braccio B, a ottenere questo risultato erano stati l'82% dei pazienti trattati con regime TAFED, il 72% di quelli trattati con TLD, il 71% di quelli trattati con atazanavir/ritonavir e il 56% di quelli trattati con lopinavir/ritonavir.

Quanto ai partecipanti con cariche virali superiori a 1000 al baseline, sia il regime TAFED che il TLD si sono mostrati più efficaci in termini di soppressione virale rispetto ai regimi a base di inibitori della proteasi potenziati.

Un secondo studio, denominato NADIA, ha confrontato i risultati ottenuti con lo switch a dolutegravir o darunavir senza test di resistenza in pazienti che avevano avuto un rialzo viremico superiore a 1000 dopo un regime a base di efavirenz. Scopo dello studio era anche valutare se il reimpiego di tenofovir e lamivudina per il trattamento di seconda linea fosse inferiore rispetto allo switch a zidovudina e lamivudina.

I risultati alla 96° settimana presentati a CROI 2022 hanno mostrato la non-inferiorità del dolutegravir rispetto al darunavir potenziato. E se alla 48° settimana i regimi con un backbone di tenofovir/lamivudina erano non-inferiori a quelli con zidovudina/lamivudina, alla 96° settimana risultavano superiori: nel braccio della zidovudina si sono verificati rialzi viremici più frequentemente rispetto a quanto osservato nel braccio del tenofovir, e anche l’insorgenza di mutazioni associate ad elevata resistenza a dolutegravir è risultata più frequente nel gruppo della zidovudina.


Cosa spiega i deludenti risultati del vaccino HIV nello studio Imbokodo?

La dott.ssa Glenda Gray (in basso a destra) a CROI 2022.
La dott.ssa Glenda Gray (in basso a destra) a CROI 2022.

Un regime vaccinale sperimentale testato in un ampio studio condotto su giovani donne in Africa meridionale non ha dato i risultati sperati in termini di protezione dall’infezione da HIV: è stata solo l’ultima di una lunga serie di delusioni in materia di ricerca di un vaccino per l’HIV.

Imbokodo (HVTN 705), studio di fase IIb avviato a novembre 2017, ha arruolato oltre 2600 donne a elevato rischio HIV di età compresa tra 18 e 35 anni provenienti da Malawi, Mozambico, Sudafrica, Zambia e Zimbabwe. Le partecipanti sono state randomizzate per ricevere per via iniettiva o quattro dosi del vaccino Ad26.Mos4.HIV oppure un placebo nel corso di un anno. Il candidato vaccino sfruttava come vettore virale l'adenovirus Ad26, responsabile del comune raffreddore, per convogliare un "mosaico" progettato al computer di antigeni derivanti da diversi ceppi dell'HIV.  Alla terza e alla quarta visita, alle pazienti del gruppo di sperimentazione è stata somministrata anche una dose di richiamo.

Come già precedentemente riferito, lo studio è stato interrotto prima del previsto nell'agosto 2021 dopo che l'analisi primaria ha mostrato che l'efficacia del vaccino era solo del 25,2%. Secondo gli esperti di salute pubblica, un vaccino deve avere un’efficacia di almeno il 50% per essere di qualche utilità nel frenare la pandemia.

La dott.ssa Glenda Gray del South African Medical Research Council, presentando ulteriori dati dello studio a CROI 2022, ha osservato che il vaccino non ha ridotto significativamente l'acquisizione dell'HIV in nessuna fascia d’età, malgrado un accenno di maggiore efficacia per le donne meno giovani.

È invece ancora in corso uno studio parallelo, denominato Mosaico, che sta sperimentando  l’impiego dello stesso vaccino per il ciclo primario in quasi 4000 maschi omo- e bisessuali e donne transgender in America settentrionale e meridionale e in Europa, abbinato però a un diverso booster.


Il lenacapavir a lunga durata d’azione si conferma promettente

Il prof. Samir Gupta (in alto a destra) a CROI 2022.
Il prof. Samir Gupta (in alto a destra) a CROI 2022.

Il lenacapavir, inibitore sperimentale del capside dell’HIV a lunga durata d’azione potenzialmente somministrabile una sola volta ogni sei mesi, continua a mostrarsi efficace per la soppressione della viremia sia in pazienti che iniziano la terapia antiretrovirale per la prima volta che in pazienti con alle spalle fallimenti terapeutici e con ceppi virali multifarmaco-resistenti: è quanto si apprende da alcuni studi presentati a CROI 2022.

Il lenacapavir distrugge il capside dell'HIV, una sorta di guscio proteico a forma di cono che circonda e protegge il materiale virale, e attacca il virus in diverse fasi del suo ciclo di vita. Grazie a questo meccanismo di funzionamento, diverso da quello degli altri farmaci esistenti, è in grado di rimanere attivo contro i ceppi di HIV resistenti ad altre classi antiretrovirali.

Lo studio di fase II CALIBRATE sta valutando l’impiego del lenacapavir come componente del trattamento di prima linea dell’HIV. Al CROI, il prof. Samir Gupta dell'Università dell'Indiana, Stati Uniti, ha presentato i risultati ottenuti alla 54° settimana: il 90% dei partecipanti del gruppo 1 (trattati con un’iniezione di lenacapavir ogni sei mesi più tenofovir alafenamide, o TAF, tutti i giorni per via orale) e l'85% sia del gruppo 2 (trattati con un’iniezione di lenacapavir ogni sei mesi più bictegravir assunto tutti i giorni per via orale) che del gruppo 3 (che invece hanno assunto giornalmente il lenacapavir in compresse più TAF/emtricitabina) erano riusciti ad abbattere la carica virale al di sotto delle 50 copie/ml. Lo stesso risultato è stato raggiunto dal 92% dei partecipanti del gruppo di controllo (trattati con bictegravir/TAF/emtricitabina ad assunzione quotidiana per via orale).

Oltre a questi elevati tassi di soppressione virale, in tutti e quattro i gruppi si sono osservati aumenti dei CD4 di entità simili tra loro: 206, 212, 220 e 193 cellule, rispettivamente. Il trattamento con lenacapavir si è dimostrato generalmente sicuro e ben tollerato.

Lo studio di fase II/III CAPELLA sta invece valutando l’impiego del lenacapavir in pazienti reduci da multipli fallimenti terapeutici. Vi partecipano 72 individui con un ceppo virale resistente ad almeno due almeno due farmaci di tre delle quattro principali classi di antiretrovirali; i pazienti erano in terapia antiretrovirale ma non riuscivano a mantenere soppressa la viremia, e due terzi di loro avevano una conta dei CD4 inferiore a 200.

I primi 36 partecipanti sono stati randomizzati per aggiungere lenacapavir ad assunzione orale o un placebo al loro (inefficace) regime terapeutico, per 14 giorni; dopodiché a tutti è stato somministrato il lenacapavir per iniezione sottocutanea ogni sei mesi, più un regime di base ottimizzato scelto in base ai risultati del test di resistenza. Gli altri 36 partecipanti sono stati riuniti in una coorte in aperto non randomizzata e hanno fin dall'inizio ricevuto il lenacapavir più un regime di base ottimizzato, iniziando con un periodo di 14 giorni in cui assumevano il farmaco solo per via orale prima di passare alle iniezioni.

All’edizione dell’anno scorso del CROI, gli autori avevano riferito che, dopo i primi 14 giorni, nell'88% dei partecipanti al gruppo trattato con lenacapavir si è osservato un decremento viremico di almeno 0,5 log, contro solo il 17% nel gruppo che aveva ricevuto il placebo.

Al CROI di quest'anno è stato presentato un poster con i dati aggiornati. Nella coorte in aperto, alla 26° settimana, l'81% dei partecipanti presentava una carica virale inferiore alle 50 copie/ml. Nella coorte randomizzata, alla 52° settimana, ad abbattere la carica virale sotto le 50 copie era stato l'83% dei partecipanti.

Nel corso del tempo, la percentuale di pazienti con conta dei CD4 molto bassa (inferiore a 50) è scesa dal 22% al 3%; di contro, la percentuale di pazienti con conte linfocitarie soddisfacenti (200 o più) è aumentata costantemente, dal 25% al 60%.

I risultati di questi due studi sostengono il potenziale terapeutico del lenacapavir come componente di un regime di trattamento a lunga durata d'azione; al momento, però, non esistono altri antiretrovirali che possono essere somministrati a un intervallo di tempo così lungo. Sono attualmente in corso studi che sperimentano la somministrazione di lenacapavir per via iniettiva due volte all'anno per la PrEP.


Il declino dei disturbi neurologici HIV-associati è legato ai nuovi antiretrovirali?

La dott.ssa Ilaria Mastrorosa (in basso a sinistra) a CROI 2022.
La dott.ssa Ilaria Mastrorosa (in basso a sinistra) a CROI 2022.

Nell’ultimo decennio si è osservato un calo della prevalenza dei disturbi neurocognitivi HIV-associati (HIV-Associated Neurocognitive Disorder, o HAND) tra le persone HIV-positive in terapia antiretrovirale (ART), si apprende da uno studio presentato a CROI 2022.

La diagnosi di HAND si basa sull’esame di funzioni come attenzione e memoria di lavoro, rapidità di elaborazione mentale, memoria e abilità motorie fini. La dott.ssa Ilaria Mastrorosa e la sua equipe hanno analizzato il profilo neurocognitivo di 1365 persone HIV-positive in Italia che hanno ricevuto una terapia antiretrovirale tra il 2009 e il 2020.

La maggior parte dei partecipanti erano maschi di età compresa tra i quaranta e i cinquant'anni, e il tempo mediano trascorso dalla diagnosi di HIV era di dieci anni.

Nell’arco di tempo considerato dallo studio, la prevalenza complessiva di HAND si è attestata al 22%, ma c’è stato un calo dal 38% del triennio 2009-2011 al 16% del 2018-2020. La prevalenza – ma il dato ovviamente non sorprende – è risultata molto più alta tra i partecipanti che all’ingresso nello studio già presentavano un deficit di memoria, attenzione o concentrazione (40%) rispetto ad altri partecipanti (13%).

È stata osservata un’associazione tra tassi più bassi di HAND e fattori come un’età più giovane, una maggiore istruzione, una conta dei CD4 più elevata e l’esecuzione del test negli ultimi anni. Tassi più bassi sono stati osservati anche nelle persone che assumevano terapie combinate di due farmaci e regimi a base di inibitori dell'integrasi, il che suggerisce un legame tra questo abbassamento e l’assunzione di antiretrovirali a maggiore efficacia virologica e più tollerabili.


    PrEP per via iniettiva, possibile intercettare più tempestivamente i casi di infezione

    La prof.ssa Susan Eshleman (in alto a destra) a CROI 2022. [
    La prof.ssa Susan Eshleman (in alto a destra) a CROI 2022. [

    Un più ampio ricorso al test al test PCR all’interno dei programmi per la PrEP potrebbe consentire di intercettare più tempestivamente i casi in cui si verifica un’infezione da HIV nonostante l’assunzione dei farmaci profilattici, è stato spiegato la scorsa settimana ai delegati presenti a CROI 2022.

    Nei rari casi in cui si verifica un’infezione da l'HIV nonostante l'assunzione di PrEP, i farmaci possono inibire la replicazione virale e ritardare la produzione di anticorpi, ostacolando l’identificazione dell’avvenuta infezione. Una diagnosi tardiva può condurre allo sviluppo di farmacoresistenze, il che può potenzialmente limitare le future opzioni terapeutiche del paziente.

    Oggi sono disponibili oltre quattro anni di dati dello studio HPTN 083, che continuano a confermare la maggior efficacia preventiva - del 66% - della PrEP con cabotegravir somministrato per via iniettiva ogni due mesi rispetto all’assunzione quotidiana dei farmaci profilattici per via orale negli uomini omo- e bisessuali e nelle donne transgender. Nei 4,4 anni da quando è stato avviato lo studio si sono verificati solo 25 eventi di infezione su 2244 persone che assumevano cabotegravir, la maggior parte imputabili a momenti o periodi di mancata aderenza.

    Alla conferenza sono stati dettagliatamente descritti sei casi di individui in cui sono state successivamente scoperte mutazioni resistenti al cabotegravir. In quattro casi, l’infezione si è verificata in persone che hanno regolarmente ricevuto le iniezioni di PrEP. Uno era un partecipante che ha contratto l'HIV nel periodo di avviamento iniziale, in cui si assume il  cabotegravir solo per via orale ogni cinque settimane prima di passare alle iniezioni. Il sesto aveva già un’infezione da HIV non diagnosticata quando ha iniziato lo studio.

    Nello studio è stata sperimentata l’esecuzione di test per l'HIV rapido e al point-of-care che, se positivo o indeterminato, veniva poi confermato da un test di laboratorio per la ricerca di anticorpi anti-HIV e dell'antigene p24. Sono però stati condotti anche test retrospettivi utilizzando la metodica PCR, che è in grado di rilevare l'HIV-RNA, ossia riesce a identificare l'infezione da HIV prima che vengano prodotti anticorpi contro l'HIV.

    Da questi test retrospettivi è emerso che, nei sei casi esaminati, l'HIV RNA poteva essere già rilevato tra 3 e 20 settimane prima che il test anticorpale rapido desse esito positivo. In quattro casi, il ricorso al test per la rilevazione dell’RNA virale avrebbe rilevato l'infezione prima che si identificassero mutazioni associate alla maggiore resistenza agli inibitori dell'integrasi, e in altri due casi prima dell’insorgenza di ulteriori importanti mutazioni di resistenza.


    Trattamento con anticorpi ampiamente neutralizzanti: sono le resistenze pregresse il tallone d’Achille?

    Il dott. Boris Juelg (in basso a sinistra) e la dott.ssa Marina Caskey (in basso a destra) a CROI 2022.
    Il dott. Boris Juelg (in basso a sinistra) e la dott.ssa Marina Caskey (in basso a destra) a CROI 2022.

    A CROI 2022 sono stati presentati due studi di fase I in cui è stata sperimentata la somministrazione in pazienti HIV-positivi con carica virale non soppressa di un trattamento a base di anticorpi ampiamente neutralizzanti (bNAb) al posto della terapia antiretrovirale standard (ART).

    I due studi hanno coinvolto un numero esiguo di persone, solo dieci in totale. Nel primo, ai partecipanti che non assumevano la ART è stata somministrata una combinazione di tre anticorpi (PGDM 1400, PGT 121 e VRC07-523-LS); nel secondo due anticorpi a lunga durata d’azione (10-1074-LS e 3BNC117-LS). Complessivamente, tre partecipanti sono riusciti a raggiungere e mantenere la soppressione virale per un periodo prolungato (diversi mesi) con il solo supporto del trattamento con  bNAb. In altri sei casi, invece, la viremia inizialmente si è abbassata, per tornare però al livello del baseline dopo due o quattro settimane.

    In entrambi gli studi, il predittore cruciale del fallimento virologico è stato la presenza di una resistenza pregressa a uno o più bNAb. Da questi risultati si evince che potrebbe essere necessario eseguire preliminarmente un test di resistenza per individuare i pazienti nei quali un trattamento con bNAb ha più speranze di successo.

    Il prof. Joe Eron, presidente della sessione, ha commentato che l’attuale stato della terapia con bNAb ricorda molto i primi tempi della terapia antiretrovirale, quando l'efficacia del trattamento veniva spesso rapidamente compromessa dall’insorgenza di farmacoresistenze.  Sarebbe stato necessario sviluppare più farmaci di diverse classi per superare questo problema, e anche per i bNAb potrebbe servire qualcosa di simile.


    aidsmapLIVE: ‘Decades of HIV’

    aidsmapLIVE

    È per lunedì 28 febbraio alle 17 (orario del Regno Unito) il primo appuntamento con aidsmapLIVE del 2022. aidsmapLIVE è una serie di tavole rotonde trasmesse in streaming  da NAM aidsmap sulle sue pagine Facebook e Twitter.

    In ‘Decades of HIV’ si affronteranno temi legati a HIV e invecchiamento, si racconteranno esperienze di persone che convivono da molti anni con il virus, e si parlerà di cosa può fare una persona HIV+ per curare al meglio la propria salute. Susan Cole di NAM aidsmap avrà questa volta come ospiti il dott. Tristan Barber, infettivologo specializzato in HIV del Royal Free Hospital con un’ampia esperienza in fatto di problematiche legate all’invecchiamento; Jo Josh, consulente per la comunicazione presso la British HIV Association; Rebecca Mbewe, co-direttrice della 4M Mentor Mothers Network; e George Hodson, che da molto tempo convive con l’HIV.