CROI 2021: Vaccino terapeutico potenzialmente efficace nel tenere sotto controllo l’HIV dopo la sospensione del trattamento, Giovedì 11 marzo 2021

Vaccino terapeutico potenzialmente efficace nel tenere sotto controllo l’HIV dopo la sospensione del trattamento

La dott.ssa Beatriz Mothe (in basso a sinistra) durante il suo intervento a CROI 2021.
La dott.ssa Beatriz Mothe (in basso a sinistra) durante il suo intervento a CROI 2021.

Un vaccino terapeutico ha consentito ad alcuni pazienti con infezione da HIV di sospendere le terapie antiretrovirali per minimo 22 settimane mantenendo molto bassa la carica virale, ha reso noto alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2021) attualmente in corso in edizione virtuale la dott.ssa Beatriz Mothe dell’Istituto di Ricerca sull'AIDS IrsiCaixa di Badalona, in Spagna.

Il vaccino terapeutico HTI è stato disegnato utilizzando informazioni ricavate da studi sui cosiddetti élite controllers, ossia pazienti che riescono a tenere a bada l’infezione per periodi prolungati senza l’ausilio dei farmaci. In questi studi erano state osservate risposte immunitarie dei linfociti CD4 e CD8 a specifiche regioni dell'HIV tali da controllare la replicazione virale; il vaccino è appunto disegnato per indurre risposte simili.

La dott.ssa Mothe ha presentato i risultati dello studio di fase I/IIa denominato AELIX-002, uno studio sulla sicurezza del vaccino nelle persone con HIV. I partecipanti alla sperimentazione hanno iniziato il trattamento antiretrovirale meno di sei mesi dopo aver contratto l’infezione da HIV, e presentavano una carica virale non rilevabile da almeno un anno e una conta dei CD4 superiore a 400 da almeno sei mesi.

Nella prima fase dello studio, i 45 partecipanti sono stati randomizzati per ricevere otto dosi di vaccino per un periodo di 18 mesi, oppure un placebo. Alcune dosi fornivano l'immunogeno HTI con un vettore di DNA, altre con un vettore MVA e altre utilizzando come vettore una versione modificata di un adenovirus dello scimpanzé.

Nella seconda fase, i partecipanti sono stati invitati a interrompere il trattamento per 24 settimane per valutare l'impatto della vaccinazione sul controllo virale, e 41 hanno accettato. Ogni settimana venivano monitorati i loro livelli di carica virale e le conte dei CD4. Se la carica virale di un paziente superava le 100.000 copie/ml in qualsiasi momento o restava al di sopra delle 10.000 copie/ml per oltre 8 settimane, oppure se la conta dei CD4 risultava per due volte di seguito inferiore a 350 cellule, al paziente veniva immediatamente fatta riprendere la terapia.

Si è osservato un rebound virale in tutti i partecipanti, di solito entro due o tre settimane dall'interruzione del trattamento, ma nella maggior parte di loro la carica virale non è mai tornata ai livelli pre-trattamento. Otto partecipanti sono riusciti a fare a meno dei farmaci fino alla 22° settimana. Cinque individui del braccio con vaccino e uno di quello del placebo hanno mantenuto una carica virale inferiore alle 2000 copie/ml durante tutto il periodo di sospensione del trattamento.

Non è ancora chiaro quali siano le implicazioni per la salute del controllo prolungato della replicazione virale a livelli bassi ma rilevabili, e lo scopo ultimo degli studi sulla cura funzionale è mantenere i livelli di HIV al di sotto della soglia di rilevabilità senza bisogno di terapie. Tuttavia, i risultati dello studio sono stati accolti con soddisfazione dalla prof.ssa Adeeba Kamarulzaman, presidente dell’IAS (International AIDS Society), che li ha definiti "la prima prova di concetto, nelle persone con HIV, che la stimolazione dei linfociti T HIV-specifici può fornire un valido contributo alle strategie di cura".

Una "cura funzionale" – ossia la soppressione dell'HIV a tempo indeterminato senza bisogno di antiretrovirali – probabilmente richiederà un approccio combinato, ad esempio coadiuvando questo vaccino con altri agenti. È attualmente in corso uno studio sull’associazione di questo regime vaccinale con l’agonista del TLR-7 vesatolimod.


Le patologie pregresse sono un fattore chiave nell’aumento del rischio di ospedalizzazione per COVID-19

Il dott. Ming Lee (a destra) durante il suo intervento a CROI 2021.
Il dott. Ming Lee (a destra) durante il suo intervento a CROI 2021.

I tassi più elevati di ospedalizzazione o di maggiori esiti avversi dopo un ricovero per COVID-19 che sono stati osservati nelle persone con HIV sono in parte imputabili alla presenza di patologie pregresse, in particolare le malattie cardiache e renali: è quanto si apprende da due studi condotti rispettivamente nel Regno Unito e negli Stati Uniti e presentati a CROI 2021.

Lo studio condotto nel Regno Unito ha concluso che il rischio più elevato di COVID-19 nelle persone affette da HIV era interamente attribuibile alle patologie pregresse e a una maggiore fragilità fisica. Lo studio statunitense ha invece rilevato un aumento lieve ma statisticamente significativo del rischio di ospedalizzazione, anche non tenendo conto di alcune patologie pregresse. Le diverse conclusioni a cui sono giunte le due indagini possono spiegarsi con le diverse metodologie adottate.

Lo studio del Regno Unito ha preso in considerazione pazienti HIV-positivi ricoverati per COVID-19 in uno di sei ospedali siti a Londra, Leicester e Manchester, abbinandoli a persone HIV-negative ricoverate nello stesso ospedale, della stessa età e dello stesso sesso, con la stessa data di diagnosi di COVID-19 e lo stesso indice di deprivazione.

Le persone con HIV avevano molte più probabilità di essere nere o di appartenere a una minoranza etnica, e avevano punteggi mediani di fragilità clinica più elevati. Inoltre in questi pazienti erano molto più diffuse svariate co-morbilità fortemente associate con esiti di COVID-19 più sfavorevoli, per esempio la malattia renale allo stadio terminale, la malattia renale cronica e la cirrosi epatica.

Dopo il ricovero ospedaliero, le persone con HIV avevano il 43% di probabilità in meno di ottenere un miglioramento di almeno due punti su una scala di gravità COVID, ma non un rischio di morte più elevato entro 28 giorni dalla diagnosi. Tuttavia, in un'analisi multivariata corretta per potenziali fattori di confondimento come indice di massa corporea, fragilità clinica, etnia, ipertensione, diabete e presenza di malattie renali croniche, l’infezione da HIV non risultava più un fattore in grado di incidere sull’eventuale mancato miglioramento.

Lo studio condotto negli Stati Uniti ha invece esaminato il rischio di gravi esiti avversi per COVID-19 in pazienti HIV-positivi e in pazienti che hanno ricevuto trapianti di organi solidi in 39 ospedali statunitensi. Il tasso di ospedalizzazione è risultato più elevato nei soggetti affetti da HIV (48,5%), nei soggetti riceventi un trapianto di organi (63,8%) e nei soggetti HIV-positivi riceventi un trapianto (70,3%) rispetto a quello osservato per le persone HIV-negative (30,6%).

Illustrando i risultati osservati, la dott.ssa Jing Sun della Johns Hopkins University di Baltimora ha sottolineato che la presenza di un’infezione da HIV effettivamente incideva meno sul rischio di ospedalizzazione una volta aggiustati i dati per tenere conto della presenza di co-morbilità, ma i risultati indicano ugualmente che le persone con HIV negli Stati Uniti risultano maggiormente a rischio di gravi esiti avversi per COVID-19.


 Dalle audiolezioni di meditazione un valido aiuto contro ansia e depressione

Jeff Berko (a destra) durante il suo intervento a CROI 2021.
Jeff Berko (a destra) durante il suo intervento a CROI 2021.

Secondo uno studio randomizzato presentato a CROI 2021, seguire audiolezioni di meditazione disponibili online può considerevolmente ridurre ansia e depressione e attenuare la solitudine nelle persone con HIV più avanti con gli anni. Potrebbe essere la prima volta che questo effetto viene dimostrato scientificamente.

La pratica della meditazione comprende il controllo della respirazione, tecniche di visualizzazione guidata e altre pratiche per rilassare il corpo e la mente e aiutare ad alleviare lo stress.

I ricercatori hanno lavorato con un pre-esistente studio di coorte osservazionale su persone HIV-positive di età superiore ai 50 anni negli Stati Uniti. In questa coorte, il 21% riferiva di aver sofferto di depressione, il 21% di ansia e il 51% di solitudine.

Lo studio, controllato e randomizzato, è stato condotto tra il maggio e l’agosto 2020, durante l'epidemia di COVID-19. Sono stati messi a confronto individui che seguivano audiolezioni di meditazione con individui che invece non erano stati interessati da alcun intervento. Ai partecipanti del braccio di intervento sono state fatte seguire 14 audiolezioni di meditazione nell’arco di 25 giorni.

Si è osservato un miglioramento di 2,6 punti nei livelli di depressione nel braccio di intervento rispetto al braccio di controllo, e una diminuzione di 1,5 punti nei livelli di ansia. Per quanto riguarda la solitudine, invece, i risultati sono contrastanti: non si sono rilevate differenze significative tra i due gruppi per la solitudine che i partecipanti riferivano di aver provato nelle due settimane precedenti, ma dai diari giornalieri che sono stati fatti tenere ai partecipanti emergeva invece una sensibile attenuazione.


Un inibitore del capside offre una nuova opzione terapeutica per pazienti con HIV altamente resistente

La prof.ssa Sorana Segal-Maurer (a destra) durante il suo intervento a CROI 2021.
La prof.ssa Sorana Segal-Maurer (a destra) durante il suo intervento a CROI 2021.

Secondo i risultati di uno studio presentato a CROI 2021, l’inibitore del capside dell’HIV lenacapavir si è dimostrato in grado di ridurre rapidamente la carica virale in pazienti pluritrattati e con multifarmacoresistenza.

La prof.ssa Sorana Segal-Maurer del Presbyterian Queens Hospital di New York ha presentato i risultati dello studio di fase II/III CAPELLA, condotto su 72 pazienti con resistenza ad almeno due farmaci di tre delle quattro principali classi di antiretrovirali.

I primi 36 partecipanti sono stati randomizzati per aggiungere al loro regime – fino a quel momento inefficace – o il lenacapavir da assumere per via orale, oppure un placebo per un periodo di 14 giorni. Dopodiché a tutti è stato offerto lenacapavir in aperto, somministrato per iniezione sottocutanea ogni sei mesi, più un regime di base ottimizzato messo a punto dopo aver eseguito il test di resistenza. Altre 36 persone di una coorte non randomizzata hanno ricevuto fin dall'inizio il lenacapavir insieme a un regime di base ottimizzato.

Al termine del primo periodo di 14 giorni, è stato osservato un calo della carica virale di almeno 0,5 log10 nell’88% dei partecipanti del braccio di intervento contro solo il 17% di quelli del braccio di controllo. Alla fine di febbraio avevano ricevuto un'iniezione 26 partecipanti, che erano stati seguiti per 26 settimane, di cui 19 (73%) hanno ottenuto la soppressione virale (con livelli di carica virale inferiori alle 50 copie /ml).

Sulla base di questi risultati, i ricercatori hanno concluso che il lenacapavir potrebbe diventare un’opzione terapeutica importante per i pazienti pluritrattati e con HIV multifarmacoresistente. Il lenacapavir ha inoltre tutto il potenziale per essere compreso nei regimi antiretrovirali a lunga durata con somministrazione ogni sei mesi oppure per essere usato da solo come farmaco a lento rilascio per la PrEP.


I regimi iniettabili per la PrEP possono ostacolare l’individuazione delle infezioni che si verificano nonostante l’assunzione dei farmaci preventivi

 Il prof. Raphael Landovitz durante il suo intervento a CROI 2021.
Il prof. Raphael Landovitz durante il suo intervento a CROI 2021.

Lo studio HPTN 083 PrEP ha raffrontato l’efficacia di due regimi PrEP, il primo che prevedeva un’iniezione una volta ogni due mesi del farmaco cabotegravir e il secondo invece basato sull’assunzione per via orale di tenofovir disoproxil fumarato ed emtricitabina (TDF/FTC): i principali risultati sono stati pubblicati nel 2020. Una nuova analisi dei risultati presentata a CROI 2021 ha confermato che con le iniezioni si è verificato il 68% di infezioni in meno rispetto a quelle osservate con il regime da assumere per via orale.

Lo studio ha esaminato in dettaglio i 12 casi di infezione osservati nelle persone cui sono state somministrate le iniezioni di cabotegravir. Esse possono in gran parte essere spiegate o come infezioni che si sono verificate poco prima dell’inizio della PrEP; o come infezioni che si sono verificate subito dopo l’inizio della PrEP, quando i livelli di farmaco erano ancora bassi; oppure come infezioni che si sono verificate a seguito dell’interruzione della PrEP.

Tuttavia, alcuni dei casi di positività non sono stati identificati per diverse settimane o mesi. Questo porta a presupporre che la somministrazione di cabotegravir per via iniettiva potrebbe ritardare l’individuazione dei casi di infezione, con i partecipanti che risultano negativi ai test anticorpali, mentre i test retrospettivi su campioni ematici dimostrano che un’infezione si era già verificata. In futuro si potrebbe prevedere di effettuare regolari controlli della carica virale oltre che i test anticorpali nello screening dell’infezione da HIV.

Quattro dei partecipanti sono poi risultati inaspettatamente positivi all'HIV nel periodo in cui ricevevano le iniezioni di cabotegravir pur presentando livelli ematici di farmaco sufficienti a garantire la protezione – a questo tipo di infezioni si fa talora riferimento con la dicitura inglese di breakthrough infections.

Secondo il prof. Raphael Landovitz, è preoccupante che si verifichino infezioni malgrado le concentrazioni ematiche di cabotegravir siano ottimali, per cui sono in corso ulteriori indagini, ad esempio, sulle eventuali variazioni di tali concentrazioni da un distretto corporeo all’altro.

D'altra parte, non si sono osservate resistenze nelle persone che con l’andare del tempo nella fase post-iniezione presentavano bassi livelli di cabotegravir, nemmeno nel caso di un partecipante che ha sviluppato una carica virale molto elevata.