Lunedì 11 novembre 2019

Nuove linee guida dall’EACS

Catia Marzolini, coordinatrice per la sezione interazioni farmacologiche delle nuove linee guida, a EACS 2019. Immagine di Gus Cairns

Alla 17° Conferenza Europea sull’AIDS (EACS 2019) tenutasi la scorsa settimana a Basilea, in Svizzera, l’European AIDS Clinical Society ha presentato la decima edizione delle sue linee guida. Un’edizione lunga oltre il doppio della precedente, a testimonianza della complessità dei temi affrontati e della molteplicità di bisogni a cui è volta a dare risposta: in particolare, ora che è aumentata l’età media delle persone con infezione da HIV, molto nuovo materiale è stato integrato proprio pensando alle necessità che una persona con HIV si trova ad affrontare con il passare degli anni.

Un’importante nuova sezione è quella dedicata alle interazioni farmacologiche, in cui vengono segnalati i possibili rischi in caso di assunzione di terapie antiretrovirali in concomitanza con farmaci impiegati per trattare co-morbidità diffuse, per esempio statine, antidepressivi o antitubercolotici.  La sezione comprende un’esauriente guida sugli adeguamenti di dosaggio degli antiretrovirali in pazienti con problemi renali, oltre che un elenco delle dieci classi farmacologiche che conviene evitare per le persone HIV-positive in età più avanzata.

Per la prima volta viene dato spazio anche alle persone transgender, fornendo informazioni sugli adeguamenti di dosaggio che potrebbero rendersi necessari in caso si assumano terapie ormonali in concomitanza con determinati antiretrovirali.

Le linee guida sui regimi antiretrovirali raccomandati per il trattamento di prima linea si concentrano sulla combinazione che ha più probabilità di risultare tollerabile e non favorire l’insorgenza di resistenze farmacologiche: dunque, in linea generale, viene raccomandato un regime a base di due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa più un inibitore dell’integrasi non-potenziato a monosomministrazione giornaliera con un’elevata barriera genetica che inibisce lo sviluppo di resistenza – il che in pratica significa il dolutegravir o il bictegravir.

Per la prima volta, poi, è contemplata anche un’opzione di terapia duplice, a base di dolutegravir più lamivudina, da adottare solo in caso di pazienti con carica virale al baseline al di sotto di 500.000 e una conta dei CD4 superiore a 200.

Nelle linee guida è infine manifestata una chiara presa di posizione a supporto dell’equazione (U=U) (undetectable = untransmittable, ‘irrilevabile = intrasmissibile”), illustrandone i risvolti per le persone con HIV che desiderino concepire un figlio e per i loro partner.

Studio australiano sul tumore anale, quasi nessun caso rilevato

David Templeton, autore dello studio per la prevenzione del tumore della regione anale, a EACS 2019. Immagine di Gus Cairns

Uno studio condotto in Australia su 617 maschi gay e bisessuali reclutati attraverso centri attivi sul territorio a Sydney, Australia, ha evidenziato un’elevatissima prevalenza di HSIL (lesioni intraepiteliali squamose ad alta malignità, ossia alterazioni precancerose del rivestimento interno del canale anale associate al rischio di sviluppare un tumore in questa regione). Al baseline presentavano tali lesioni il 32% degli individui HIV-negativi e il 47% di quelli HIV-positivi, ha riferito il dott. David Templeton alla conferenza.

Tuttavia, dopo tre anni di follow-up, un solo partecipante su 617 è andato incontro a progressione in tumore anale. È difficilissimo calcolare una possibile incidenza sulla popolazione sulla base di un unico caso, ma si tratta comunque di un risultato non in linea con gli elevati tassi di incidenza registrati negli studi precedenti per gli uomini gay HIV-positivi.  

Gli autori dello studio hanno anche constatato che l’incidenza di nuove lesioni non era più elevata per i fumatori e lo era solo di poco per i partecipanti con infezione da HIV, un dato rilevante perché si tratta di due gruppi solitamente considerati a maggior rischio.

Un altro dato incoraggiante è che la regressione delle lesioni (intesa sia come ritorno delle cellule a condizioni normali sia come diminuzione delle cellule abnormi) è risultata più frequente della comparsa di nuove lesioni: si è avuta ogni anno una regressione delle HSIL nel 22% dei partecipanti, mentre a sviluppare nuove lesioni è stato solo l’11%.

Primo studio europeo sulla ‘perseveranza’ nell’assunzione della PrEP

Dominique Costagliola di Inserm a EACS 2019. Immagine di Gus Cairns

Dai risultati di PREVENIR, uno studio francese in aperto sull’impiego della PrEP da parte di uomini gay e bisessuali nella regione di Parigi, è emerso che il 16% dei partecipanti smetteva di assumere i farmaci entro un anno, e il 32% dopo 30 mesi.

Si tratta di tassi di ‘perseveranza’ nell’assunzione della PrEP più elevati rispetto a quanto osservato in studi precedenti condotti negli Stati Uniti. PREVENIR è peraltro il primo studio condotto in Europa su questo tema.

La maggior parte dei partecipanti che interrompeva la PrEP ha semplicemente abbandonato lo studio senza comunicarlo ai medici. Quelli che invece li hanno avvertiti hanno riferito di non sentirsi più a rischio di infezione.

I più soggetti a interrompere sono risultati i partecipanti più giovani (dai 25 anni in giù), quelli meno istruiti e quelli che non avevano mai assunto la PrEP in precedenza. Le condizioni economiche non sono invece risultate incidere sulla perseveranza nell’assunzione della PrEP.

La dott.ssa Dominique Costagliola di Inserm, l’Istituto Nazionale francese per la Salute e la Ricerca Medica, durante il suo intervento ha detto che sarebbero utili delle ricerche qualitative sui giovani MSM (maschi che fanno sesso con maschi) con basso livello di istruzione, allo scopo di approfondire le ragioni per cui smettono di prendere questi farmaci e per elaborare interventi mirati in grado di aumentarne la perseveranza. 

Aumento di peso dopo switch terapeutico più marcato nelle donne nere

In due ampi studi di coorte condotti in Europa e presentati alla Conferenza, i pazienti virologicamente soppressi che effettuavano lo switch terapeutico a un regime a base di inibitori dell’integrasi hanno sì sperimentato aumenti di peso, ma molto contenuti.

Tuttavia, i partecipanti di etnia nera sono risultati più soggetti ad aumenti di peso anche cospicui, in particolare se donne. Da questi risultati sembra di poter evincere che forse, piuttosto che considerare i risultati degli studi di switch nel loro complesso, potrebbe convenire concentrarsi sui fattori di rischio per aumenti di peso clinicamente significativi di oltre 5 kg. Specie nei casi di studi di coorte come questi, i cui partecipanti sono prevalentemente bianchi e di sesso maschile.   

Un gruppo di ricercatori della coorte AGEhIV, nei Paesi Bassi, ha progettato uno studio prospettico osservazionale per monitorare le alterazioni del peso corporeo in pazienti che passavano a un regime terapeutico contenente un inibitore dell’integrasi. Ognuno dei partecipanti che effettuava lo switch è stato appaiato a due partecipanti HIV-positivi che continuavano ad assumere un regime privo di inibitori dell’integrasi e due partecipanti HIV-negativi.

Per tutto il corso del periodo di follow-up non si sono rilevate differenze significative in termini di alterazioni del peso corporeo tra i partecipanti che erano passati al regime comprendente un inibitore dell’integrasi (0,17 kg all’anno) e i corrispondenti pazienti di controllo, sia quelli HIV-positivi (0,22 kg all’anno) che quelli HIV-negativi (0,18 kg all’anno).

Ma nelle donne nere, dopo lo switch, si è osservato molto più frequentemente rispetto ad altri gruppi demografici un aumento di peso del 10% e oltre, anche se erano complessivamente sottorappresentate nella coorte.

In un’indagine condotta su 2186 pazienti del Swiss HIV Cohort Study che sono passati al dolutegravir, l’aumento mediano di peso si è attestato su 0,5 kg nei 18 mesi precedenti allo switch, per poi salire a 0,7 kg nei 18 mesi successivi.

Quando hanno calcolato il rischio di subire un aumento del peso corporeo superiore al 5%, gli autori dello studio hanno constatato che le probabilità erano circa del 50% più alte per le donne, le persone di etnia nera e i fumatori attivi.

Una possibile ragione per l’aumento di peso associato agli inibitori dell’integrasi

Slide della presentazione di Jennifer Gorwood a EACS 2019.

Gli inibitori dell’integrasi dolutegravir (Tivicay, contenuto anche nel Triumeq e nel Dovato) e raltegravir (Isentress) provocano delle alterazioni nella struttura delle cellule lipidiche che possono favorire lo sviluppo di obesità o insulinoresistenza, ha riferito alla conferenza Jennifer Gorwood del centro di ricerca Saint Antoine, afferente all’Università della Sorbona di Parigi.

L’affermazione si basa su dati provenienti da studi di cellule raccolte da persone con infezione da HIV e da primati esposti ai farmaci. I risultati fanno sospettare che a seguito dell’assunzione di questi inibitori dell’integrasi si sviluppi una fibrosi del tessuto adiposo sottocutaneo e viscerale, oltre che una fibrosi dei preadipociti, associata alla sindrome metabolica.

Tuttavia ci sono divergenze di opinioni tra gli esperti in merito al ruolo della fibrosi adipocitica. Si tratta infatti di risultati preliminari, intesi a stimolare nuove ricerche, e non certo prove definitive del meccanismo con cui gli inibitori dell’integrasi provocano l’aumento del peso.