Mercoledì 13 marzo 2019

U=U, è questione di diritti umani

Parlando alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2019) la scorsa settimana, la dott.ssa Carrie Foote ha affermato: “Tutte le persone con HIV hanno diritto a ricevere informazioni accurate sulla propria salute sessuale e riproduttiva e tutti i risvolti sociali ad essa collegata.”

Foote vive con l’HIV dal 1988, ed è tra i membri fondatori della campagna internazionale U=U, lanciata nel 2016, dove U=U significa Undetectable = Untrasmittable, ossia ‘non rilevabile = non trasmissibile’. Si tratta di una campagna attuata in collaborazione con associazioni attive sul territorio in quasi 100 paesi: lo scopo è diffondere i risultati di tutta una serie di studi che mostrano come le persone con HIV che seguono correttamente una terapia antiretrovirale efficace non trasmettano il virus per via sessuale ai partner.

È un principio in grado di cambiare la vita sessuale, riproduttiva e sociale delle persone che vivono con l’HIV, senza contare quanto può contribuire a combattere lo stigma che ancora grava su di loro. “Lo stigma ci uccide”, ha aggiunto Foote. “Lo stigma è un’emergenza di salute pubblica, e U=U rappresenta uno strumento immediato ed efficace per iniziare a demolirlo completamente.”

Durante un simposio tenuto in seno alla Conferenza sono state discusse alcune questioni chiave che riguardano questo approccio, come il linguaggio da usare quando si parla di non-rilevabilità, ma anche le disparità che possono ostacolare l’accesso al trattamento e l’aderenza terapeutica, le questioni cliniche relative al rischio e l’importanza dell’accesso ai test della carica virale nei contesti con risorse limitate.

È ancora utile la conta dei CD4 nell’era del ‘trattamento per tutti’?

Due studi presentati a CROI 2019 mostrano quanto è ancora importante eseguire il test della conta dei CD4 prima di iniziare le terapie antiretrovirali, anche nell’odierna era del ‘trattamento per tutti’.

Con la conta dei linfociti CD4 si valuta lo stato di salute del sistema sanitario e l’entità del danno provocato dall’HIV. Se il risultato è inferiore alle 200 cellule/mm3, il rischio di infezioni opportunistiche è elevato. In passato, in molti paesi si riservava l’erogazione di terapie antiretrovirali a chi avesse presentato una conta dei CD4 inferiore a 500 o 350 e l’esame era eseguito di routine.

Oggi, però, nella maggior parte dei paesi le linee guida per il trattamento dell’infezione da HIV prevedono che chiunque riceva una diagnosi HIV inizi le terapie il prima possibile, a prescindere dalla conta dei CD4. Secondo i risultati di studi condotti in sei paesi dell’Africa meridionale e presentati a CROI 2019, questo esame viene condotto sempre meno frequentemente: il che è motivo di preoccupazione per gli studiosi, secondo il quali il test è invece fondamentale per individuare soggetti con conte CD4 molto basse che necessitano di un monitoraggio più attento e di una più incisiva profilassi delle infezioni opportunistiche. Quando le risorse sono limitate, tuttavia, c’è chi ritiene doveroso dare priorità al test della carica virale.

Gli autori di uno studio condotto in Zambia hanno studiato la correlazione tra numero di test dei CD4 eseguiti e tassi di mortalità nel biennio 2013-2015, prendendo in considerazione persone in trattamento antiretrovirale in quattro diverse province del paese. Non aver eseguito il test della conta dei CD4 prima di iniziare le cure risultava associato a un aumentato rischio di morte, con tutta probabilità per via di un’infezione opportunistica non diagnosticata.

Un altro studio condotto in Botswana ha rilevato che un quarto delle persone che si presentano per iniziare le cure hanno ancora una conta dei CD4 inferiore a 200. Se però si considera chi inizia il trattamento con valori superiori a questa soglia, è bassissima la percentuale dei casi in cui i CD4 risultano scesi sotto i 200 in successive misurazioni, e per la maggior parte di loro risulta invece superiore. Gli autori hanno perciò concluso che per coloro che iniziano il trattamento con una conta superiore a 200 l’utilità di eseguire regolarmente il test dei CD4 è limitata, ma che il primo test resta essenziale per identificare gli individui con basse conte dei CD4.

Sudafrica, HIV farmacoresistente in una persona su sei prima dell’inizio del trattamento

Sizulu Moyo durante il suo intervento a CROI 2019. Foto di Roger Pebody.

Un’ampia indagine condotta su famiglie sudafricane ha evidenziato che una persona HIV-positiva su sei che ancora non assume terapie presenta un ceppo HIV farmacoresistente, e oltre la metà di chi è già in cura ha una resistenza ad almeno un farmaco.

Per l’indagine è stato utilizzato il metodo diagnostico del dried blood spot testing, che prevede l’analisi di un campione di sangue essiccato. Il test è stato effettuato su un campione trasversale della popolazione sudafricana. L’analisi ha mostrato che, tra coloro che già ricevevano le terapie antiretrovirali, il 55,7% presentava almeno una mutazione in grado di causare l’insorgenza di farmacoresistenze, più frequentemente ai farmaci delle classi degli inibitori non-nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTI) e degli inibitori della trascrittasi inversa nucleosidici e nucleotidici (NRTI). Tra coloro che invece non avevano mai assunto antiretrovirali, il 15,3% presentava una farmacoresistenza, tutti agli NNRTI.

A seguito di questa presa di coscienza dell’entità del problema delle resistenze agli antiretrovirali, gli autori dello studio auspicano che sia data priorità all’impiego di inibitori dell’integrasi nei regimi di prima linea e venga potenziato il sostegno all’aderenza terapeutica per chi riceve i trattamenti. Sarà inoltre necessario procedere più precocemente allo switch terapeutico nei casi di fallimento, onde evitare che si sviluppino ulteriori farmacoresistenze.

Sono invece più incoraggianti i risultati di uno studio separato, sempre presentato alla Conferenza, che ha riscontrato ottimi tassi di risposta virologica in individui che ricevevano una terapia antiretrovirale di seconda linea a base di dolutegravir, anche in casi in cui nel regime terapeutico era compreso un NRTI a cui era stata precedentemente evidenziata una resistenza.

Inibitore del capside HIV in grado di consentire la soppressione virale a lungo termine

Un inibitore sperimentale del capside dell’HIV si sarebbe dimostrato sicuro e potrebbe essere somministrato una sola volta ogni tre mesi o anche meno: è quanto si apprende dai risultati di un trial preliminare presentato a CROI 2019.

Gli inibitori del capside sono una nuova classe di farmaci antiretrovirali che vanno a interferire con l’assemblaggio e il disassemblaggio del capside dell’HIV, ossia l’involucro proteico che racchiude il patrimonio genetico del virus.

I dati presentati alla Conferenza sono il risultato di uno studio di fase I che ha valutato la sicurezza e le caratteristiche farmacocinetiche di questo nuovo inibitore – attualmente noto come GS-6207 – in 40 volontari HIV-negativi. Somministrato per iniezione sottocutanea, il farmaco sembrerebbe mantenersi a concentrazioni così elevate nel sangue da consentire potenzialmente la somministrazione una volta ogni tre mesi, e si sarebbe inoltre dimostrato ben tollerato.

Screening del tumore al polmone nelle persone HIV+, meglio iniziare prima

Da uno studio presentato a CROI 2019 emerge che le persone con HIV, e in particolar modo le donne, potrebbero sviluppare il tumore al polmone in età più precoce e con minor esposizione al fumo rispetto alla popolazione generale. Le persone con HIV sono più inclini al fumo, ma a questa disparità potrebbero anche contribuire altri fattori come il sistema immunitario compromesso e altri fattori HIV-correlati.

Gli autori intendevano valutare se i criteri adottati nello studio statunitense National Lung Screening Trial possono considerarsi efficaci per individuare il tumore al polmone anche negli uomini e nelle donne con HIV. Negli Stati Uniti è raccomandato lo screening annuale delle persone di età compresa tra i 55 e gli 80 anni con esposizione al fumo pari ad almeno 30 pacchetti/anno (dove per pacchetti/anno si intende fumare 20 sigarette al giorno per un anno), sia che siano ancora fumatori attivi, sia che abbiano smesso nel corso degli ultimi 15 anni. In due ampie coorti di persone con HIV, però, soltanto il 16% delle donne e il 24% degli uomini con tumore al polmone rientravano in questi parametri. I ricercatori hanno dunque concluso che per individuare più efficacemente la patologia nelle persone con HIV sarebbe meglio abbassare la soglia sia in termini di età che di anni di esposizione al fumo.

Uno studio separato ha invece preso in considerazione i fattori di rischio per tumore al fegato in un gruppo di individui HIV-positivi che partecipavano al Veterans Aging Cohort Study. L’analisi ha coinvolto 2497 persone con fibrosi o cirrosi in stadio avanzato e 29.836 con fibrosi di entità moderata o lieve o privi di fibrosi. Nel corso del follow-up, è stato diagnosticato un tumore epatico a 278 pazienti, il 47% dei quali non presentavano fibrosi o cirrosi in stadio avanzato. La coinfezione con epatite B o C è risultata associata a più alte probabilità di tumore epatico indipendentemente dallo stadio della fibrosi. Tra coloro che non presentavano fibrosi estesa, un’elevata carica virale o una conta dei CD4 inferiore a 200 sono risultate associate a un rischio maggiore di sviluppare la patologia.

Tassi più alti di infezione HIV in bambini nati da madri HIV+ con elevata cariche virali dell’epatite B

Uno studio presentato a CROI 2019 ha riscontrato che le donne con coinfezione HIV/epatite B e con carica virale dell’epatite B elevata erano più a rischio di partorire bambini HIV-positivi rispetto a donne con monoinfezione HIV o con carica virale dell’epatite B meno elevata.

L’analisi si basa sui dati provenienti da uno studio condotto nell’Africa sub-sahariana tra il 2007 e il 2010 e ha coinvolto 2016 madri e 2041 bambini.

Dopo aver aggiustato i dati tenendo conto della conta CD4 delle madri, della loro età e del trattamento HIV che assumevano, è risultato che i bambini nati da madri con cariche virali dell’epatite B elevate avevano maggiori probabilità di contrarre l’HIV (20%) rispetto a quelli nati da madri con la sola infezione HIV (4%) o con cariche virali dell’epatite B non elevate (0%).

È risultato inoltre che un’elevata carica virale dell’epatite B aumentava il rischio di problemi alla nascita, tra cui il sottopeso.

La dott.ssa Debika Bhattarcharya, che ha presentato i dati, ha concluso dunque che ridurre la carica virale dell’epatite B apporta benefici che vanno al di là della prevenzione della trasmissione perinatale dell’epatite B.

Ben tollerata la terapia a base di dolutegravir in combinazione con trattamento profilattico anti-TB 3HP

In uno studio presentato a CROI 2019, la combinazione di un regime antiretrovirale a base di dolutegravir e un breve ciclo di terapia con rifapentina e isoniazide (3HP) somministrata come trattamento profilattico per la tubercolosi (TB) latente si è dimostrata ben tollerata e non ha dato reazioni avverse.

Il dolutegravir è raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per coloro che iniziano per la prima volta le terapie antiretrovirali; la stessa OMS raccomanda però anche trattamento profilattico delle persone con TB latente con 12 somministrazioni settimanali di 3HP nei paesi dove l’incidenza di questa malattia è elevata. Eventuali interazioni farmacologiche potrebbero costituire un problema per le persone con HIV, ed è per questo che è stato condotto questo studio mirato a valutare se i due trattamenti possano essere assunti contemporaneamente in sicurezza.

Hanno partecipato allo studio 60 persone con HIV che hanno assunto dolutegravir (una somministrazione giornaliera, 50mg) con tenofovir ed emtricitabina (Truvada) più una dose settimanale di 3HP (900mg di rifapentina e 900mg di isoniazide) per 12 settimane. Tramite un’analisi farmacocinetica dei loro campioni ematici si è condotta una valutazione dell’impatto del trattamento profilattico sui livelli di dolutegravir.

Il risultato è stato che effettivamente i livelli di dolutegravir risultavano ridotti, ma i valori mediani più bassi erano comunque al di sopra del valore-obiettivo, e tutti i partecipanti sono riusciti a mantenere non rilevabile la carica virale.

La ‘cura più soft’ con la terapia genica rallenta il rebound virale in alcuni pazienti che sospendono le terapie antiretrovirali

La notizia di questa edizione della Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche che ha avuto maggior risonanza è che una seconda persona potrebbe essere stata curata dall’HIV a seguito di un trapianto di midollo osseo. Ma si tratta di una procedura estremamente rischiosa che non verrebbe mai tentata in un paziente non affetto da un tumore.

L’intervento ha funzionato perché i linfociti T del paziente HIV-positivo sono stati sostituiti da cellule immunitarie di un donatore che era portatore di una mutazione genetica nota come CCR5-delta 32, a causa della quale queste cellule sono prive di un recettore, detto appunto CCR5, generalmente presente sulla loro superficie e che la maggior parte dei ceppi HIV sfrutta per agganciare e conseguentemente infettare la cellula stessa.

In un altro studio anch’esso presentato a CROI, i ricercatori hanno riprodotto artificialmente questa mutazione genetica usando un metodo più sicuro e soprattutto replicabile: hanno coltivato i linfociti T di 15 persone con HIV per modificarli con una tecnica che sfrutta enzimi di modifica genica chiamati nucleasi a dita di zinco, con cui si ottiene lo stesso risultato.

Le cellule sono state poi reinfuse nei pazienti, che otto settimane dopo hanno interrotto l’assunzione di antiretrovirali per un periodo stabilito di 16 settimane. In tutti i partecipanti, l’HIV ha fatto la sua ricomparsa, con la carica virale che è tornata rilevabile; per di più, la quantità di linfociti resi CCR5-negativi ha iniziato lentamente a diminuire.

Ci sono persone che presentano naturalmente una copia del gene CCR5-delta-32: tra i partecipanti allo studio, erano cinque su quindici. Le rilevazioni dimostrano che in questo sottogruppo la carica virale ha impiegato più tempo a tornare rilevabile. Due dei partecipanti non hanno ricominciato ad assumere antiretrovirali fino a 20 e 32 settimane dopo la sospensione della terapia.

La sperimentazione dunque non ha ottenuto la remissione a lungo termine, ma rappresenta comunque una dimostrazione di un metodo più sicuro, replicabile e privo di tossicità per creare una popolazione di linfociti T resistenti all’HIV che possono essere reinfusi nell’organismo, rallentando in certa misura il rebound virale.

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