Mercoledì 6 marzo 2019

Il paziente di Londra, in remissione HIV a lungo termine con trapianto di staminali

Da Londra arriva la notizia di un uomo che non presenta tracce rilevabili di HIV a un anno e mezzo dall’interruzione della terapia antiretrovirale dopo aver subito un trapianto di cellule staminali del midollo osseo per trattare un linfoma. È quanto riferito in un intervento alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2019) in corso questa settimana a Seattle.

Il caso è stato accostato a quello di Timothy Ray Brown, il cosiddetto “paziente di Berlino”, il primo a essere mai considerato curato dall’HIV. Brown, affetto da leucemia, era anch’egli stato sottoposto a un trapianto di staminali del midollo osseo: il donatore aveva due copie di una rara mutazione detta CCR5-delta-32, che causa la mancanza di co-recettori CCR5 sui linfociti T. Sono proprio questi recettori che la maggior parte dei virus HIV sfrutta per infettare le celle, e di conseguenza chi è affetto dalla mutazione è resistente al virus. Brown è stato sottoposto a chemioterapia di condizionamento ad alta intensità e a radioterapia corporea totale per eliminare tutte le cellule cancerose del sistema immunitario: questo ha fatto sì che le staminali del donatore andassero a ricostituire un nuovo sistema immunitario resistente all’HIV. Sono ormai 12 anni che Brown ha interrotto l’assunzione di antiretrovirali e da allora non presenta più tracce del virus.

Il professor Ravindra Gupta dell’University College di Londra ha adesso presentato il caso del cosiddetto ‘paziente di Londra’, che attualmente rimane anonimo, sottoposto a trapianto di staminali per trattare un linfoma di Hodgkin nel maggio 2016; proprio come per Brown, il donatore aveva due copie della mutazione CCR5-delta-32. L’uomo si è poi sottoposto a una chemioterapia di condizionamento meno aggressiva rispetto a quella di Brown, e il trapianto è esitato nella completa remissione del linfoma.

Sedici mesi dopo l’intervento, l’uomo ha smesso di assumere terapie antiretrovirali e oggi, a 18 mesi di distanza, la sua carica virale ematica risulta non rilevabile anche utilizzando test estremamente sensibili, in grado di rilevare fino a 1 copia/ml: non risultano tracce di HIV DNA nelle cellule CD4 periferiche e i test non hanno rilevato virus “riattivabile” in 24 milioni di linfociti T non attivati.

Il professor Gupta ha sottolineato che per il momento non si può escludere un rebound virale e che per poter parlare di “cura” è bene attendere di verificare se l’uomo resterà privo di HIV per altri due o tre anni, ma si è detto “molto fiducioso che tale risultato sarà raggiunto”.

Si tratta di casi da cui si può certamente imparare molto in termini di ricerca di una cura per l’HIV; gli esperti però avvertono che, anche se il trapianto con staminali con mutazione CCR5-delta-32 può effettivamente condurre a una cura funzionale, si tratta pur sempre di una procedura ad alto rischio, che per la maggior parte delle persone con infezione HIV non rappresenta un’opzione effettivamente percorribile.

Inghilterra, in soli due anni incidenza HIV in calo del 55% nei MSM

In soli due anni è calata del 55% l’incidenza delle nuove infezioni HIV nei maschi che fanno sesso con maschi (MSM) in carico presso alcuni centri per la salute sessuale in Inghilterra, rivela nella sua presentazione a CROI 2019 Dana Ogaz di Public Health England. Si tratta di dati raccolti di routine presso maschi gay, bisessuali e altri MSM che si rivolgono allo stesso centro due o più volte nel corso dello stesso anno.

L’incidenza è stata misurata prima per il 2012-2013, poi per il 2014-2015, e di nuovo per il 2016-2017. Il primo anno si attestava all’1,9% (il che significa che durante quell’anno avevano contratto l’HIV due uomini su 100) ed era rimasta pressoché stabile (1,8%) nel secondo biennio. Solo due anni dopo, però, è risultata diminuita ad appena 0,8%.

Una tendenza simile era stata osservata in MSM che l’anno precedente erano risultati negativi al test HIV ma avevano avuto un’infezione sessuale di origine batterica – un gruppo ad alto rischio di contrarre l’HIV. L’incidenza è passata prima dal 3,7 al 3,4%, per poi crollare all’1,6%, una diminuzione del 53% in due anni.

Si osserva dunque una riduzione delle nuove diagnosi HIV proprio in un momento in cui sempre più uomini usufruiscono della profilassi pre-esposizione (PrEP), e contemporaneamente continuano gli sforzi per promuovere l’esecuzione del test HIV e il tempestivo inizio delle terapie antiretrovirali.

Con il test della carica virale al point-of-care migliorano outcome terapeutici e ritenzione in cura

A CROI 2019 sono stati presentati i risultati del primo trial controllato randomizzato volto a verificare l’impatto dell’offerta del test HIV rapido sul sito di cura (cd. test al point-of-care).

La possibilità di apprendere l’esito del test lo stesso giorno in cui veniva eseguito, anziché attendere per settimane i risultati del test di laboratorio, ha consentito un aumento del 14% nei tassi di soppressione virologica e ritenzione in cura in una struttura sanitaria pubblica in Sudafrica.

Il dott. Paul Drain, durante il suo intervento, ha sottolineato come i tempi necessari per ottenere gli esiti dei test di laboratorio rappresentino un ostacolo per il monitoraggio del trattamento HIV nei contesti con risorse limitate. Se invece i risultati sono subito disponibili, quando il paziente è ancora fisicamente presente in struttura, è molto più facile identificare eventuali problemi o comunque offrire immediatamente degli interventi di sostegno.

Lo studio ha coinvolto 390 partecipanti con infezione HIV che sono stati arruolati sei mesi dopo aver iniziato le terapie antiretrovirali. A quelli del braccio di intervento era stato offerto di eseguire direttamente sul sito di cura il test rapido Xpert e lo stesso giorno avevano potuto fruire di un intervento di counselling; quelli del braccio di controllo invece avevano seguito il percorso standard, effettuando il test di laboratorio.

L’outcome primario dello studio era la ritenzione in cura e l’abbattimento della carica virale al di sotto delle 200 copie/ml dopo 12 mesi dall’ingresso nello studio: un risultato raggiunto dall’89,7% dei partecipanti facenti parte del braccio d’intervento, contro il 75,9% di quelli del braccio di controllo.

Tutti e sei i pazienti del braccio di intervento che hanno sperimentato un fallimento virologico sono passati alla terapia di seconda linea, in un periodo mediano di un solo giorno dopo l’esecuzione del test. Nel braccio di controllo, questo è avvenuto soltanto nel caso di quattro partecipanti su nove, e dopo un periodo mediano di 76 giorni.

I pazienti hanno riferito di apprezzare il poter avere un feedback in tempo reale sulla propria aderenza terapeutica e aiuto rapido per la risoluzione di eventuali problemi.

Mortalità per tumore mammario più elevata nelle donne con HIV

I risultati di uno studio condotto in Botswana e presentato a CROI 2019 sembrerebbero indicare che le donne HIV-positive con tumore mammario potrebbero avere tassi di sopravvivenza inferiori rispetto alle donne HIV-negative. La presenza di un’infezione HIV è stata infatti associata a una diminuzione quasi doppia del tasso di sopravvivenza.

Studi precedenti condotti sia negli Stati Uniti che in Africa non hanno rilevato per le donne con HIV né un’incidenza superiore del tumore mammario né maggiori probabilità di sviluppare il cancro: tuttavia, da alcuni studi effettuati su un campione ristretto di partecipanti HIV-positive erano già emerse indicazioni che la sopravvivenza potesse essere ridotta.

L’analisi prospettica presentata a CROI 2019 è stata effettuata sulla Thabatse Cancer Cohort, che arruola circa 4000 pazienti oncologiche in cura presso quattro grandi centri specializzati del Botswana. Le partecipanti sono state valutate al momento dell’ingresso nello studio e seguite per i successivi cinque anni. La coorte del tumore mammario comprendeva 510 donne che hanno usufruito di cure oncologiche tra l’ottobre 2010 e il settembre 2018: di queste, 151 erano HIV-positive e 327 HIV-negative.

Le donne HIV-positive erano in media più giovani di qualche anno rispetto alle altre, ma i due gruppi erano omogenei in termini di tipo e stadio del tumore. Anche le terapie somministrate non presentavano differenze sostanziali legate alla presenza dell’infezione HIV. La maggior parte delle donne con HIV assumevano una terapia antiretrovirale, e circa il 70% avevano una carica virale inferiore alle 1000 copie/ml.

Nel corso dello studio sono decedute 70 donne HIV-positive (46%) contro 101 donne HIV-negative (31%). Un’analisi multivariata comprendente altri fattori ha riscontrato che per le donne con HIV la sopravvivenza si riduceva dell’82% rispetto a quelle HIV-negative.

La dot. ssa Katrin Sadigh, presentando lo studio, ha sottolineato come il tasso di sopravvivenza sia molto basso sia per le pazienti HIV-positive che per quelle HIV-negative, evidenziando che c’è urgente bisogno di strategie per velocizzare le diagnosi e migliorare le cure.

Probabilità di soppressione virale più elevate al momento del parto con gli inibitori dell’integrasi

Da due studi randomizzati condotti su donne in gravidanza e presentati a CROI 2019 emerge che la terapia con inibitori dell’integrasi, sia raltegravir (Isentress) che dolutegravir (Tivicay, contenuto anche nel Triumeq), consentirebbe di abbattere la carica virale molto più rapidamente di quella con efavirenz se iniziata a uno stadio più avanzato della gravidanza.

Sono molte le donne con HIV che apprendono di avere l’infezione facendo il test quando sono già in gravidanza, e spesso dopo aver già superato il primo trimestre. Ottenere un rapido abbattimento della carica virale durante la gravidanza è fondamentale per far sì che al momento del parto la paziente abbia una carica virale non rilevabile, riducendo così drasticamente il rischio che il virus venga trasmesso al nascituro.

Lo studio NICHD P1081, condotto in Sudamerica, Africa, Thailandia e Stati Uniti tra il 2013 e il 2018, ha coinvolto partecipanti che iniziavano la terapia antiretrovirale (ART) in uno stadio avanzato della gravidanza (dopo la 20° settimana), randomizzandole per assumere un regime a base di raltegravir oppure efavirenz.

In questa analisi condotta su oltre 300 donne, i ricercatori hanno riscontrato che nel braccio del raltegravir molte più pazienti arrivavano al parto con una carica virale inferiore alle 200 copie/ml (il 94%, contro l’84% dell’altro braccio): la correlazione era inoltre più marcata in coloro che avevano iniziato la terapia dopo la 28° settimana (93% contro 71%). Il periodo di tempo mediano necessario a scendere sotto le 200 copie/ml è risultato di 8 giorni per le donne che assumevano raltegravir e 15 in quelle trattate con efavirenz. Quanto agli eventi avversi, non sono state rilevate differenze tra i due gruppi, né per quanto riguardava le madri, né per quanto riguardava i bambini.

In un secondo studio presentato a CROI, DOLPHIN-2, un gruppo di pazienti che avevano iniziato la ART dopo la 28° settimana di gravidanza sono state randomizzate per assumere un regime a base di dolutegravir oppure di efavirenz. Su un totale di 237 partecipanti, le donne del braccio del dolutegravir sono risultate avere il 66% in più di probabilità di raggiungere l’abbattimento della carica virale prima del parto. Anche in questo caso, gli autori non hanno riscontrato differenze tra i due gruppi in termini di eventi avversi per le madri né di parti prematuri. Nel corso di questo studio si sono verificati tre casi di trasmissione dell’HIV, tutti e tre nel braccio del dolutegravir; secondo gli autori tuttavia la trasmissione è avvenuta in utero, e non al momento del parto.

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